SOTTO UN MARE DI STELLE C'ERA UNA VOLTA UN MARE
Sotto un mare di stelle c'era una volta un mare
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate
La celebre frase di Dante Alighieri potrebbe riassumere l’epilogo di tutto ciò che avvenne in questa vastissima area del Karakalpakstan durante la seconda metà del Novecento, con Moynaq come epicentro di uno dei peggiori disastri ecologici della storia dell’uomo.
La cittadina, formata perlopiù da piccole case in cemento dai tetti in lamiera, sembra abbandonata. In giro non si vedono persone, non si vedono animali, non si vedono macchine. La temperatura dell’aria è infernale, siamo più vicini ai 50 che ai 40 gradi.
Il nostro fuoristrada ci lascia nel parcheggio del museo della storia del disastro del lago d’Aral, dove un monumento rappresenta l’involuzione di quello che un tempo era il quarto lago più esteso della Terra.
Dietro al museo, una scalinata scende fino a quello che era il grande porto cittadino, ora un deserto arido su cui sono arenati dei pescherecci totalmente arrugginiti. Scendiamo a osservare più da vicino questo cimitero spettrale, sotto un sole così caldo che disidrata in fretta, e così luminoso che si riflette nelle conchiglie bianche e nel sale, testimoni del disastro compiuto dall’uomo.
Dopo decine di scatti di questo paesaggio abbiamo visitato il museo.
Aral, il lago cancellato.
Siamo negli anni ’60.
La grande città di Moynaq, che contava circa 40.000 abitanti, era conosciuta in tutta l’Unione Sovietica per l’intensa attività commerciale legata al mondo della pesca. La comunità di pescatori della città portuale disponeva di una vasta flotta, in grado di pescare più di 100 tonnellate di pesce al giorno. Il pesce veniva trasportato nelle industrie ittiche di trasformazione della città, e da lì in tutta l’Unione Sovietica.
Il lago garantiva inoltre un microclima regionale peculiare, molto simile al clima temperato continentale europeo.
La città era in continua crescita, i cantieri navali avevano sempre il loro gran da fare, e la popolazione guardava al domani con ottimismo nonostante l’avvento della Guerra Fredda.
La competizione non fu risparmiata nemmeno nel campo agricolo: i vertici di Mosca cercarono nuovi terreni da destinare alla coltivazione del cotone, pianta che richiede tantissima acqua e calore. Terreni che trovarono in Asia Centrale, più precisamente in Uzbekistan, attraversato dai grandi fiumi Amu Darya e Syr Darya. Si procedette quindi alla canalizzazione forzata dei due fiumi, con le tecniche dell’epoca poco inclini all’efficienza.
Le nuove coltivazioni, almeno all’inizio, ebbero una grandissima resa, coadiuvate dall’impiego massiccio di fertilizzanti e pesticidi, che tuttavia finivano irrimediabilmente nel lago e nelle falde acquifere.
In seguito l’acqua che il fiume portava naturalmente al lago d’Aral iniziò a diminuire drasticamente, fino a compromettere del tutto il bilanciamento idrico del lago al netto della sua evaporazione.
Grigory Voropaev, responsabile sovietico, dichiarò consapevolmente che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste e che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d'Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l'enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all'agricoltura e, testualmente, "un errore della natura" che andava corretto.
Wikipedia
Oggi queste dichiarazioni fanno rabbrividire, ma nel passato le modificazioni ambientali senza pensare troppo ai possibili effetti collaterali erano la normalità.
Anno dopo anno il fiume ridusse la sua portata al punto da fermarsi prima del suo estuario; il livello del lago cominciò ad abbassarsi per evaporazione, la salinità ad aumentare. Si spezzò l’equilibrio idrico regionale: il clima, non più mitigato dal lago, divenne desertico, ed oggi le temperature estive sfiorano i 50 gradi.
Le rive della città di Moynaq, un tempo bagnata dalle acque del suo lago, si allontanarono; per salvare l’attività ittica si provarono a scavare dei canali di collegamento tra il porto ed il lago, ma fu del tutto inutile.
Dopo la fine della Guerra Fredda venne a galla l’oscura verità dell’isola di Vozroždenie, o isola della Rinascita, che in epoca sovietica fu utilizzata come base militare segreta per costruire e studiare armi chimiche e batteriologiche quali vaiolo e antrace.
Con il ritiro del lago l’isola divenne una penisola, un potenziale vaso di Pandora che non fu mai aperto solo grazie all’intervento di bonifica da parte degli Stati Uniti nei primi anni del 2000.
La scomparsa del lago vista dai satelliti.
La stragrande maggioranza degli abitanti che vivevano sulle sponde del lago e a Moynaq è fuggita, e per i pochi rimasti l’incidenza di contrarre malattie quali tubercolosi, cancro e patologie congenite, è aumentata in modo esponenziale.
In pochi decenni il lago ha perso il 90% del suo volume di acqua, e si è diviso in due sezioni, nord e ovest. Del fondale del lago ora non rimane che una landa desolata, dove tempeste di sabbia sollevano e trasportano a centinaia di chilometri di distanza il sale e le sostanze chimiche utilizzate per il cotone.
Al campo di Yurte, attraversando l’Aralkum
Oggi il fondale si chiama Aralkum, il deserto dell’Aral. Lo abbiamo attraversato in fuoristrada, fermandoci in qualche punto per osservare più da vicino il sale e le conchiglie.
La traversata del deserto impressiona e riempie di sentimenti contrastanti: se da un lato tutto questo rattrista, dall’altro il “toccare con mano”, vedere realmente cosa succede alla Terra se l’uomo compie qualcosa di sbagliato invoglia a far di più per salvaguardare il nostro pianeta, rendendoci più consapevoli.
Qualche azione mitigatrice del disastro è stata compiuta dal lato del Kazakistan, che non abbiamo visto, dove la banca mondiale ha costruito una diga che impedisce all’acqua di defluire verso il resto del lago morente in Uzbekistan, preservando il piccolo Aral del nord, dove l’attività ittica è parzialmente ripresa grazie alla reintroduzione di alcune specie, e dove la salinità è tornata ai livelli pre-disastro.
In Uzbekistan si stanno piantando delle specie di arbusti resistenti a questo clima desertico e salato, per formare una sorta di barriera contro le rovinose tempeste di sale e residui chimici che affliggono la zona.
Tuttavia il governo uzbeko ha deciso di non ripristinare il lago perchè ha preferito sfruttare industrialmente il sale e i giacimenti di gas naturale scoperti in questa zona.
Dal vecchio fondale ci siamo spostati verso uno scenico canyon di rocce bianche, e da lì ci siamo diretti ad un vecchio cimitero utilizzato in passato dai nomadi. Successivamente siamo andati al campo di yurte, da cui si può vedere ciò che resta dell’Aral ovest.
La guida ci ha portato fino alle sue sponde, dove appare tutta la drammaticità del disastro: fa orrore anche solo pensare di bagnare i piedi in un mare privo di vita e pieno di residui chimici.
Siamo infine ritornati al campo di yurte per la cena. Il campo è molto spartano, e ci vuole un forte spirito d’adattamento per trascorrervi una notte: per fare la doccia bisogna entrare in una struttura a cielo aperto con pareti in lamierino e, tirando una catenella, l’acqua scaldata dal sole fuoriesce dal serbatoio sospeso.
Nonostante questa ed altre scomodità, al tramonto abbiamo cenato con gustose pietanze a base di riso, carne d’agnello, pane uzbeko e verdure.
Prima di ritirarci nella nostra polverosa ma comoda yurta, abbiamo atteso la notte per assistere a qualcosa che l’uomo moderno non riesce più ad ammirare, uno spettacolo da contemplare in silenzio, a centinaia di chilometri dalla civiltà, nel buio più totale:
sopra quello che una volta era un mare, si trovava un mare di stelle.
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